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martedì 18 settembre 2012

la scatola delle fotografie

la scatola delle fotografie

Mia nonna Vincenza aveva una scatola da scarpe piena zeppe di fotografie. Centinaia di fotografie dei figli, dei nipoti, delle nuore, dei generi, dei pronipoti. Forse più di cento familiari. Ricordava i nomi di tutti e come facesse per me è un mistero. Alcuni non li aveva mai visto di presenza essendo in Canadà, in Usa o in Germania. A volte ci riuniva attorno a sè quando andavamo a trovarla a Realmonte e ci parlava di loro i e dei luoghi che abitavano e di quando se ne erano andati.

Aveva portato dagli States un aggeggio di legno laccato con due vetri nel quale si infilavano cartoline che si vedevano in modo tridimensionale, Le cartoline mostravano personaggi e paesaggi dell'America dell'inizio del Novecento. Ne ricordo una con una grande spiaggia affollata di persone cosa che per noi era stranissima. Non avevamo ancora abitudine alle ferie ed ai bagni di mare. A noi ragazzi le foto tridimensionali sembravano una magia, una cosa miracolosa e quando andavamo da lei una delle prime cose che andavano a cercare nel grande cassettone di casa era questa sorta di proiettore.


Quando mia nonna si sentiva bisognosa di essere accudita chiamava il tassinaro del paese e si faceva accompagnare a casa mia. La figlia Assunta (mia madre) era preposta a questa incombenza. Stava un genere una ventina di giorni durante i quali aizzava quotidianamente mia madre contro mio padre. Il quale invece aveva tante attenzioni per lei e le proc urava quasi quotidianamente un merluzzetto da farle bollito. D Quando si sentiva di nuove in forze o le mancano le commarelle vicine di case richiamava il taxi si prendeva la sua "truscia" e prima di andarsene dal predellino della auto faceva un ultimo comizio contro mio padre. Al quale rimproverava cose di venti o trenta anni fa che probabilmente non erano mai accadute.

Morì di un male allo stomaco ultraottantenne. La ricordo nel letto di morte con mio zio Giuseppe seduto al suo fianco che faceva conto complicatissimi con un lapis su un taccuino della eredità della nonna. L'eredità era ben misera cosa. due pezzi di terra con qualche alberello di mandorlo o di frutta che non raggiungevano un ettaro. Questo atteggiamento di mio zio era il prodotto della politica di potere che la nonna aveva praticato in famiglia. Dieci figli tutti divisi e quasi rancorosi l'uno con l'altro per una ben misera cosa! Mia madre rinunzio subito alla lenza di terra che le sarebbe toccata e non ne volle sapere niente. Naturalmente questa vicenda della eredità veniva presto dimenticata da tutti perchè appunto non ne valeva proprio la pena ma i dissapori restavano più tra i figli maschi che la tra le femmine.

Contrariamente a quanto si crede non è vero che povertà e solidarietà vann insieme. La povertà spesso incattivisce e rende meschini. C'è una sorta di meccanismo psicologico che scatta nelle famiglie numerose molto povere. Una sorta di forza centrifuga in cui non potendo nessuno aiutare l'altro tutti vanno ognuno per la sua strada.

I miei parteciparono alle lotte per l'occupazione di terre. Mio zio Giuseppe ne fu uno dei dirigenti. Si chiedeva l'assegnazione dei terreni incolti della immensa proprietà del barone Agnello. A riforma agraria fatta, visti i risultati deludenti iil movimento contadino di sciolse e moltissimi emigrarono all'estero come era accaduto subito dopo la repressione dei fasci siciliani. Il grosso partiva per la Germania, altri per il Belgio e la Francia.
Andarono ad abitare le squallide baracche della Wolksvagen nella triste ed opprimente Germania dove piove sempre ed il sole si vede raramente, Dopo anni di rimesse ai familiari per costruire una casetta abusiva ed affrancarsi dall'affitto tornavan o con una sola ricchezza: la pensione! La pensione che assicurava la loro sopravvivenza a vita anche se assai modesta Portarono pure la conoscenza della busta paga e l'abitudine a sentire la radiolina al transitor. Il contatto con le regole della indiutria del Nord fece prendere coscienza di tanti diritti che prima erano del tutto sconosciuti. Il diritto alle ferie che attivò un grandissimo traffico automobilistico dal Nord verso la sicilia.
Lavorando come muli e "leccando la sarda" molti dei nostri emigranti si sono fatte le casette nei paesini natii e magari la casa per figli. Hanno costruito illegalmente e spesso in proprio con l'aiuto soltanto di un bravo capomastro della famiglia e degli amici.
Per il resto non hanno avuto nulla tranne una cosa preziosa: la pensione che anche se piccolo piccola permette alle famiglie di comprare qualche sacco di grano o di farina per l'inverno ed un orcio di olio. La pensione è stata la più grande conquista della emigrazione. In Italia era largamente sconosciutia. Nessuno aveva le "marchette" per poterla rivendicare. Ne bastavano se mal non ricordo di 15 anni.
Ma l'emigrazione ha distrutto la cultura contadina e bracciantile siciliana. Nell'immediato è sembrato di averne un beneficio un progresso. Con il tempo abbiamo capito che non era così. Che quella cultura veniva sostituita non da una cultura superiore ma dalla spazzatura commerciale del cosidetto progresso e dal vacuo.
I braccianti siciliani poveri erano portatori di una cultura di grande valore. Nelle riunioni di assemblee era un piacere sentirli parlare. Le parole anche se appassionate erano misurate ed impregnate ad una sapienza che oscillava tra il pessimismo frutto di secoli di sofferenze al rivoluzionariasmo di quanti avevano capito il valore del lavoro nelle relazioni sociali. Mi dispiace che non si abbiano registrazioni delle assemblee popolari dei braccianti. I braccianti sono stati il popolo della Sicilia, la radice profonda della nostra gente. Ognuno di noi ha sangue loro nelle vene e questo fa dei siciliani una delle popolazioni più intelligenti della terra. Come i palestinesi. Come gli ebrei. Noi siciliani siamo tutti figli di contadini e di braccianti!

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